domingo, 31 de marzo de 2013

Massimo Cacciari sobre Francisco. Escándalo, escándalo

Massimo Cacciari-Il nome Francesco dice già tutto del nuovo Papa Venerdì 15 Marzo 2013 16:32 Scritto da mar notizia del 2013-03-14 20:37:53 La scelta del nome Francesco dice già tutto del nuovo Papa, il suo modo d’intendere la sua funzione, il suo rapporto con tutte le persone: è quanto sostiene il filosofo Massimo Cacciari R. - Mi pare sia evidente: ha assunto un nome straordinario, per la prima volta e non a caso. Quindi è chiaro che sarà un Papa che cercherà di svolgere il proprio ministero con una sensibilità altissima per il povero. E’ un richiamo fortissimo per la Chiesa alla povertà. Quindi è evidente anche la ripresa del senso delle dimissioni di Ratzinger. Humilitas et paupertas sono le grandi virtù francescane e quindi con il nome che ha assunto, ha detto tutto quello che doveva dire. Il resto non sono nient’altro che conseguenze di questa scelta, che - ripeto - è una scelta assolutamente straordinaria, come quella che aveva fatto Ratzinger. Non a caso nessun Papa aveva - diciamo pure - “osato” chiamarsi Francesco. Quindi se questo ha osato chiamarsi Francesco, dovrà pure dire qualcosa. D. - Le categorie che sempre si usano - progressista, conservatore - sono rispuntate fuori anche a proposito del nuovo Papa. Secondo lei sono valide oggi? R. - Non sono valide neanche sul piano politico, si figuri se sono valide sul piano religioso o spirituale. Certo che, come sempre per quanto riguarda i vescovi, anche i più grandi dell’America Latina, può darsi che vi sia una certa tensione tra la linea di umiltà, di povertà, di radicale vicinanza e prossimità al povero, che spesso questi grandi vescovi interpretano e incarnano, e la posizione dal punto di vista teologico, etico, scarsamente in sintonia con le società più secolarizzate dell’Occidente. Bisogna vedere… Certo i problemi saranno colossali. Poi c’è un altro segnale che è duplice, diciamo contradditorio: questa è la prima volta non soltanto di Francesco, ma è la prima volta dell’extra europeo. Questo resta un fatto colossale, colossale. Testimonia in positivo per un verso la cattolicità autentica e per l’altro un segnale che potrebbe essere letto anche drammaticamente di perdita proprio di centralità europea sotto ogni profilo. Abbiamo perso sotto il profilo economico, ora anche sotto il profilo culturale e spirituale. Non è una cosa da niente per la Chiesa: la Chiesa ha avuto i suoi cardini in Europa, non c’è niente da fare. La Chiesa è stata, per secoli e secoli, Chiesa europea. Cosa comporterà questo e quali saranno le conseguenze di questo? E’ facile dire cattolicità, cattolicità… Sì, certo c’è questa dimensione, ma come di ogni cosa c’è anche l’altra faccia… D. - Un riferimento all’omelia che ha pronunciato alla sua prima messa da Papa. Ha detto: “Bisogna avere il coraggio di camminare con la Croce del Signore, senza la Croce siamo mondani, bisogna camminare nella luce, vivere con irreprensibilità...". Insomma confessare Gesù Cristo, altrimenti "diventeremo una ong assistenziale”… R. - Ha perfettamente ragione. Non c’è dubbio alcuno. Se la Chiesa si declina soltanto sotto il profilo etico, per quanto nobile, sotto il profilo socio-politico, per quanto nobile, non è più la Chiesa. La Chiesa deve predicare il Verbo e da ciò, di conseguenza, tutto il resto. Ma se dimentica il paradosso iniziale, lo scandalo iniziale da cui nasce… D. - Lo scandalo della Croce? R. - Quello è lo scandalo: la follia. E’ una follia. Il logos della Croce è una moria per il mondo. Detto questo, però, la Chiesa - e questo sarà il problema di questo Papa - deve anche essere nel mondo, deve saperne i linguaggi, deve saperlo ascoltare, deve essere in grado di capire cosa dice il mondo nel XXI secolo. Radio Vaticana

miércoles, 27 de marzo de 2013

Giovanna Bemporad, imagen y textos

Por Diego Bentivegna, para poesía argentina "El 6 de enero de este año murió en su casa de Roma la poeta italiana Giovanna Bemporad. Su obra poética se concentra en un solo libro: Esercizi, publicado -y reescrito- en varias oportunidades. La primera edición es de carácter artesanal y funciona, podría pensarse, como una expresión típica del contexto italiano de posguerra. Fue publicada en 1948 en Venecia; por entonces, esa ciudad era residencia más o menos fija de Giovanna Bemporad; la joven, que apenas había pasado los veinte años, vivía en un departamento semiabandonado de la ciudad lagunar, que había fascinado a comienzos del siglo a algunos de los autores –George, Rilke, Hofmannsthal- con los que construye, a través de la escritura y de la traducción, una suerte de comunidad de los ausentes." texto completo,acá.

martes, 5 de marzo de 2013

Feliz cumple, PPP!!!

ABOLIAMO LA TV E LA SCUOLA DELL'OBBLIGO Corriere della Sera, 18 ottobre 1975 di Pier Paolo Pasolini I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa. Infatti i criminali non sono solo i neofascisti. Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. Dunque c'era da rallegrarsi per due ragioni: 1) per la conferma del fatto che sono solo e sempre fascisti la colpa di tutto; 2) per la conferma del fatto che la colpa è solo e sempre dei borghesi privilegiati e corrotti. La gioia di sentirsi confermati in questo antico sentimento populista - e nella solidità dell'annessa configurazione morale - non è esplosa solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché, colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti. Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neofascisti, ma sono anche allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei fratelli Carlino di Torpignattara, o all'aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti "popolari" - e per ora mi riferisco, con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. E' assurdo dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro "a piede libero" i neofascisti se non si accusano nello stesso tempo e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in giro "a piede libero" i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate romane). La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici pariolini o dei sadici di Torpingnattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che l'universo popolare romano è universo "odioso". Lo dico con scandalo dei benpensanti; e soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera). E a proposito, poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloide dell'infima borghesia neofascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all'universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una "cosa", le dicevano: "Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez". La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all'offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m'insegna che non c'è più alcuna differenza vera nell'atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria "funzione"). Un'altra cosa che l'esperienza diretta m'insegna è che questo è un fenomeno totalmente italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell'informazione italiana il consolarsi col fatto che anche negli altri Paesi esiste il problema della criminalità: esso esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide ed efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita. Che cos'è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall'ansia economica di esserlo? Che cos'è che ha trasformato le "masse" dei giovani in "masse" di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una "seconda" rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la "prima": il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo "reale", trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene. Donde l'ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall'assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c'è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c'è stata: la scelta dell'impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s'intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l'a priori progressista valido fino a una decina d'anni fa). Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 1) Abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo. 2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione. La scuola d'obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell'autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po' di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un'altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d'obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all'ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l'optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d'obbligo è esattamente come io l'ho descritta (e mi angoscia letteralmente l'idea che vi venga aggiunta una "educazione sessuale", magari così come la intende lo stesso "Paese Sera"), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E' questo il nodo della questione). Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito della scuola d'obbligo va moltiplicato all'infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un "esempio": i "modelli" cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E' stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l'era della pietà, e iniziato l'era dell'edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell'irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore). Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l'immediata cessazione delle lezioni alla scuola d'obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo - come di qualsiasi altro "luogo culturale" - col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e "l'Unità": e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita. Link: http://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html

lunes, 4 de marzo de 2013

Toni Negri: “Es la pobreza lo que le falta a la Iglesia"

por EL ARRIERO el 01. MAR, 2013 en UNCATEGORIZED (tomado de el puercoespín febrero 18/2013) Hace más de veinte años salió la encíclica Centesimus Annus, del Papa polaco, en ocasión del centenario de la Rerum Novarum –era el manifiesto reformista, fuertemente innovador, de una iglesia que se pretendía ya la única representante de los pobres después de la caída del imperio soviético. A ese documento, mis compañeros parisimos de Futur Antériur y yo dedicamos un comentario que era, a la vez, reconocimiento y desafío: lo titulamos “La V Internacional de Juan Pablo II”. Veintidós años después, el Papa alemán abdica. Se declara no sólo fatigado del cuerpo e incapaz de oponerse a los enredos y la corrupción de la Curia romana, sino también impotente de ánimo para enfrentar el mundo. Esta abdicación, sin embargo, sólo puede sorprender a los miembros de la curia –todos aquellos que prestan atención a las cosas de la iglesia romana saben que otra abdicación, mucho más profunda, ya había ocurridohace rato, bajo Juan Pablo II, cuando, con el ferviente apoyo de Ratzinger, se acabó con la apertura a los pobres y el compromiso con una iglesia renovada por la liberación de los hombres de la violencia capitalista y de la miseria. ¿Había sido pura mistificación aquella encíclica de 1991? Hoy debemos reconocer que es probable. De hecho, en América Latina la iglesia católica destruyó todo foco de la teología de la liberación, en Europa volvió a reivindicar el ordo-liberalismus, en Rusia y en Asia se halló incapaz de desarrollar aquel proselitismo que el nuevo orden mundial le permitía, y en los países árabes e iraníes vio a los musulmanes, con sus diversas sectas y fracciones, tomar el lugar del socialismo árabe (y, a menudo, cristiano) y del comunismo chiíta en la defensa de los pobres y en el desarrollo de las luchas de liberación. La aproximación a Israel se realizó no en nombre del antifascismo y de la denuncia de los crímenes nazis, sino en nombre de la defensa de Occidente. La paradoja más significativa se puso de manifiesta en el hecho de que al gran impulso misional (que se había desarrollado autónomamente después del Concilio Vaticano II) se lo hizo refluir hacia las ONG, rígidamente especializadas y depuradas de cualquier característica genéricamente “franciscana”. Estas ONG terminaron por dedicarse a la práctica de esos “derechos del hombre” que la iglesia (y los dos papas, el polaco y el alemán) rehusaba reconocer en los países europeos o de América del Norte, donde todavía expresaban, con resonancias anticlericales y republicanas, las instancias (residuales, no obstante eficaces) de la laicicidad humanista e iluminista. En vez de estar a la izquierda de la socialdemocracia, como la Centesimus Annus proponía, el papado se halló, así, replegado sobre la derecha del panorama social y sobre una derecha política que a menudo hacía guiños a los Tea Parties (también europeos). Ahora el Papa alemán abdica. Es casi divertido oír hablar a la prensa de todo ese mundo que todavía tienen intereses en el acontecimiento (muy limitado, incluso si se considera el espacio global). Le pide al nuevo Papa que reconozca el ministerio eclesiástico de las mujeres, que vuelva colegiada –de un modo burgués—la administración de la iglesia, que garantice una posición de independencia respecto de la política… Pedidos banales. ¿Acaso tocan lo esencial? Con toda seguridad, no: es la pobreza lo que falta a la iglesia. Y sería, al fin, el momento de comprender que el Papa no es un rey pero debe ser pobre, no puede sino ser pobre. ¿Tratarán de enmascarar el problema promoviendo a un africano, o a un filipino, al papado? ¡Qué horrible gesto racista sería si el Vaticano y sus oros y sus bancos y su política dogmática a favor de la propiedad privada y del capitalismo, siguieran siendo blancos y occidentales! Piden que se conceda a las mujeres el sacerdocio: ¿no es hipocresía ppura, cuando no se les pasa siquiera por la antecámara del cerebro que Dios pueda ser declinado en femenino? Quieren colegialidad en la gestión de la iglesia: pero ya Francisco enseñó que la colegialidad podía darse solo en la caridad. Etc., etc. La iglesia del Papa polaco y del Papa alemán ha concluido el proceso de aniquilación del Concilio Vaticano II, y esta liquidación, desgraciadamente, no ha representado jamás una “guerra civil” en el interior de la iglesia de roma, sino sólo unas estocadas entre prelados –también sangrientas, como en el caso de la neutralización del cardenal Martini, pero siempre se trató de esgrima. Así, poniendo una piedra encima del Concilio, estos dos últimos papas han bloqueado un impetuoso movimiento de renovación religiosa. Sobre todo han confundido a la iglesia y Occidente, el cristianismo y el capitalismo: era aquello que la Centesimus Annus prometía no hacer más una vez salidos de la histeria antisoviética. No bastaba, sin embargo, con proclamar la pobreza para subordinar las formas de vida del Occidente capitalista al cristianismo: tocaba practicar la pobreza, alimentarla, como una revolución. Ante las crisis monetarias, productivas y sociales, los cristianos habrían deseado una nueva y adecuada definición de la “caridad”, del “amor por el prójimo”, de la “potencia de la pobreza”, de parte de la iglesia. No la han obtenido. Y, con todo, mucho militantes cristianos rechazan esta declinación que el Vaticano y Occidente parecen recorrer juntos. Algunos piensan, entonces, que “la renuncia de Benedicto podría finalmente conducir a la iglesia fuera del siglo XIX”; otros, que producirá una reflexión profunda y el reconocimiento de la necesidad de una reforma. ¿Pero no tienen en cambio razón aquellos que piensa que nos hallamos delante de “la agonía de un imperio enfermo”? ¿Y que aquel gesto de Benedicto no es otra cosa que una coartada oportunista, una tentativa extrema de huir de la crisis? Lo único de lo que estamos seguros es de que cualquier reforma doctrina será totalmente inútil si no es precedida, acompañada y terminada mediante una reforma radical de las formas de presencia social de la iglesia, de sus mujeres y de sus hombres. Solo si estos logran ligar la esperanza celeste y la terrena. Y entonces, a hablar de nuevo de la “resurrección de los muertos” ocupándose de los cuerpos, del alimento, de las pasiones de los hombres que viven. Esto implica romper con la función que el Occidente capitalista ha confiado a la iglesia –la de pacificar, con esperanzas vacías, al espíritu que sufre; la de tornar culpable el alma de quien se rebela. La discontinuidad producida por la abdicación de Benedicto suscitará efectos de renovación cuando la acompañe el rechazo a representar la “Iglesia de Occidente”. Quizás ha llegado el momento de destruir esta identidad sobre la estela de cuando había propuesta la Centesimus annus más de veinte años atrás y de reconocer a los trabajadores la identidad de los explotados, en Occiente, por Occidente. Pero si no lo logró el Papa polaco de entonces, es dudoso que pueda lograrlo un alumno suyo de carisma débil. La obra ha sido legada, pues, a los cristianos. A todos nosotros.